«Bibbidi-bobbidi-bu», in termini narratologici, è lo strumento magico offerto dal mentore a Cenerentola. Simbolo della sincerità e fiducia in sé stessi, viene reso filastrocca indimenticabile per perseguire lo scopo più nobile della narrazione classica: soccorrere il pubblico smarrito, confortarlo con i valori archetipici dell’eroe. Un po’ come Hakuna Matata, un po’ come Supercalifragilistichespiralidoso: bussole a cui noi, bambini smarriti di fronte alle difficoltà della vita, abbiamo ricorso come strumenti magici di navigazione. Crescendo poi, ci siamo anestetizzati: abbiamo rifiutato la semplicità di lasciarci cullare nell’illusione della narrazione classica.

Eppure, la narrazione classica è rappresentazione e fondamento della nostra costruzione identitaria e culturale: quella struttura, altrimenti chiamata viaggio dell’eroe, che da Ulisse a Papa Pio XIII plasma i nostri schemi mentali di auto–narrazione, creando i racconti che sorreggono la nostra identità. Bruner, psicologo cognitivista e culturale nel campo dell’evoluzione, scrive «creiamo i nostri racconti che definiscono l’io per affrontare le situazioni in cui continueremo a vivere». I nostri racconti ricalcano la narrazione classica: crediamo in quella struttura che vede un protagonista volitivo e disposto a sacrificare tutto ciò che ha di più caro per diventare un eroe.

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La vediamo nei miti, nelle fiabe e nei film che hanno contribuito a fare ordine nella nostra infanzia come nella nostra cultura. E se sono i «Bibbidibobbidibu» a venire a galla dai nostri ricordi in momenti di disorientamento (non a caso si parla di strumento magico!) è la struttura narrativa ad essersi radicata in noi: sfruttiamo il suo potere archetipico sia per la nostra personalità individuale che come società.

A questo proposito, lo storico J.N. Harari evidenzia l’utilità di avere un navigatore di racconti collettivi, scrivendo che «disporre di una narrazione è una condizione molto rassicurante». Guardando alla patria della narrazione classica cinematografica, gli Stati Uniti d’America, ci sentiamo più che mai ingenui, scettici e impauriti di fronte alla violenta frantumazione ideologica, altro che al sicuro. La narrazione sembra essere in pericolo. Lo sa bene il racconto dell’Unione Europea, che tenta di proporre una narrazione rassicurante attraverso l’unione dei popoli, ma si scontra con l’orgoglio sovranista.

E lo stesso Harari avverte di quanto sia grave l’assenza di una narrazione comune. Assenza che è ancor più grave oggi, perché ci indebolisce proprio quando le rivoluzioni informatica e biotecnologica ci richiederebbero lucidità e consapevolezza, ponendoci «davanti alle più grandi sfide che la nostra specie abbia mai affrontato».

Dalle tre grandi narrazioni in lotta nel Novecento (quelle nazista, comunista e liberale) quella liberale ha vinto su tutte nel 1989 dando vita ad un monopolio di fede condivisa, apparentemente insormontabile. Il punto di morte, invece, è arrivato anche per lei. Potevamo immaginarlo: dopo un apice di consapevolezza, dopo l’illuminazione di inter- net, dopo la visione di un mondo connesso e unito, dovevamo prepararci ad una caduta. Dovevamo prepararci ad un Cigno nero, come ci ha consigliato N.N. Taleb.

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Vent’anni dopo l’apice, vent’anni dopo l’avvento della convergenza mediale, siamo tutti qui nel punto di morte. Un punto di morte da manuale, per il racconto classico, in cui sembra tutto perduto sia nel raggiungimento dell’obiettivo esterno (la civiltà globale) che di quello interiore (essere eroi). Con il nuovo millennio l’Homo Sapiens si è smarrito, ed è al varco di una nuova civiltà che ancora non conosce, in cui ancora non crede in termini narratologici, Vogler lo definirebbe superamento della prima soglia.

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«Perché avete paura?» ci ricorda Papa Francesco durante la prima social indulgenza plenaria, accusandoci di non avere più fede. Per chi ha ancora la forza di credere nella narrazione classica, dopo il punto di morte c’è la resurrezione. Dobbiamo essere disposti a riconoscere e lasciar morire i nostri difetti fatali. Quali sono i difetti fatali di una civiltà nascente? Possiamo sperare di delinearli attraverso la ricerca e il confronto, abbandonando la tentazione dell’immediatezza per restituire il primato alla conoscenze ormai sovrastata dall’informazione.

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«L’afflizione ci cambia» dice The Young Pope quando si rende conto di aver sofferto, e di esser per questo pronto a superare i propri difetti fatali. A insegnarcelo è la narrazione classica, perché è nel punto di morte, quando tutto è perduto, che l’eroe si concede al desiderio di una vita migliore. Ma per raggiungerla dovrà affrontare la sfida più grande di tutte: cambiare. Siamo in balia di questa improvvisa frammentarietà, ci sentiamo in pericolo per una tanto imminente quanto irrazionale fine del mondo, siamo solo spaventati all’idea di varcare la soglia di un nuovo mondo straordinario. Ci serve una narrazione. Una narrazione condivisa di cui discutere, in cui credere, su cui investire, con cui orientarci. La narrazione è una bussola che l’evoluzione ha concesso all’Homo sapiens. Servirà un eroe volitivo per trasformarla in uno strumento magico.

SIDEREUS
Federico Di Liddo
Annachiara Tagliaferri
Immagini di Aliquid Stat Pro Aliquo un film di Alessandro Gessaga