UN SENSO (Dante O. Benini)

Un senso profondo è nascosto in questo flusso compiuto di parole, di emozioni e di concetti che Dante Benini, ci regala in questo sinuoso pezzo che mi appare anche musicale, che unisce alla dolcezza delle espressioni la fermezza delle idee.

Raramente ho letto scritti che assomigliano così precisamente a quanti svolgono la nostra professione e questo significa che l’identificazione di Dante col suo pensiero è ricerca faticosa ma stimolante di verità.

Lui conosce bene, e da molti anni, la complessità del processo che porta dall’idea di grafite alle masse volumetriche del cantiere e quante insidie questo percorso nasconde ma, da difensore della “semantica progettuale”, non è mai caduto nell’imboscata del compromesso.

Questo è il vero insegnamento di un vecchio/giovane maestro, che vale molto più di mille trattati perché mette in pratica quello che citava di Vitruvio: dare un senso allo spazio dell’uomo nella sua interezza, senza rinunciare mai alla tecnica che è custodita dall’artefice primo e ultimo di ogni costruzione, quell’architetto.

Un Uomo che resiste a tutte le pressioni che vorrebbero limitarne l’audacia, la temerarietà, l’azzardo estetico.

Mi chiedo che architettura sarebbe se non ci fossero personaggi come Dante, sempre imprevedibili e sognatori che gli anni non hanno reso saggi, anzi la loro ribellione formale e funzionale risulta sempre incoercibile.

Ovviamente noi ci collochiamo in periodo storico che vorrebbe e vorrà limitare tutto questo ma siamo sicuri che troveremo sponde ovunque affinché l’omologazione delle forme e delle funzioni non mortifichi, oltre il necessario la nostra società e l’uomo contemporaneo, ma non preoccupatevi finché opereranno architetti come Dante Benini, possiamo stare tranquilli.

(MDC)


Dopo ormai una vita della professione di Architetto mi è capitato, sempre più insistentemente, di chiedermi che senso avesse questo mestiere, la sua utilità e, se mai questa ci fosse, come riuscire a trasmetterla alla gente, quella comune, quella attanagliata dai problemi del quotidiano, del far  tornare i conti della vita, della salute, delle responsabilità.

La mia frustrazione più grande poi è sentire, quando si è in aereo, o in un luogo pubblico, “c’è un medico a bordo?”, ed ecco “il senso di inutilità del fare”: stessi anni di studio, stesso impegno per rimanere informati, attuali, aggiornati, progressisti, stessi sacrifici, stesse lingue studiate e parlate, ma in questo caso, il più importante, inutili.

Allora il tentativo e lo sforzo assoluto di voler esistere come “professione riconosciuta utile da tutti”, ma nel quotidiano, in tutto quello che ci circonda, in tutto quello che tocchiamo, fatto dall’uomo per l’uomo.

Il giuramento di Vitruvio per gli architetti come quello di Ippocrate per i medici?”

All’inizio del libro “De Architectura” Vitruvio tratteggia la figura del Buon Architetto, il quale dovrebbe “possedere una cultura letteraria, essere esperto nel disegno, preparato in geometria e ricco di cognizioni storiche; avere nozioni di filosofia e di musica, sapere qualcosa di medicina e di diritto, ma anche di astronomia e astrologia”.

Insomma avere un concetto dell’essere umano nella sua interezza, delle sue necessità fisiche e psichiche, dal momento che l’edificio influenza  chi lo vive e lo usa, con i materiali di cui si compone, con la forma che lo contraddistingue, con la disposizione delle finestre, delle porte, degli impianti che lo mettono in relazione con la luce, l’aria, l’acqua e lo spazio, tutto nell’ordine che si preferisce dare.

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La preoccupazione per gli effetti dell’edificato sulla salute accompagna la trattatistica fin dall’antichità, ma non manca anche nell’epoca contemporanea, ciò non ha comunque impedito  la costruzione di “batterie di allevamento forzato” per esseri umani, come avviene per le galline, e questo in tutti i settori, dalle abitazioni ai luoghi di lavoro, a quelli pubblici di ritrovo, ma purtroppo anche nei luoghi di cura “oggetto di discussione in questa straordinaria emergenza”.

Ho imparato  immodestamente a dire, per difendere e dare “un senso” al nostro lavoro, che “se la medicina cura, l’architettura è prevenzione” e mai come in questo caso l’aforisma è calzante.

Architettura come musica, armonia, atmosfera emozionale, ma subito dopo qualità dell’ambiente. 

Il suono e la materia possono abbassare la frequenza delle onde emesse dal pensiero creando, assieme alla luce e allo spazio, uno “STATO DI BENESSERE”.

Queste sono considerazioni che non possono prescindere dal nostro essere architetti, soprattutto quando parliamo di luoghi di cura. In ogni progetto dobbiamo sin dall’inizio infondere un sogno, dare vita ad un posto dove sognare di tornare a vivere.

Venendo al tema specifico, a mio modo di vedere, a parte la realtà ormai manifesta che in un attimo può succedere l’imponderabile per cui il mondo può essere fermato, credo che se questo momento finirà, il dopo virus ci costringerà a vivere forse per moltissimo tempo con mascherine disegnate da stilisti e scudi progettati da designer, vivremo tutti con il volto coperto non meravigliandoci più di un mondo Islamico che in qualche modo non abbiamo condiviso fino in fondo sino ad oggi.

Come dicevo in apertura, cambieranno certo la cultura ospedaliera e quella preventiva, cambieranno le formule sugli assembramenti nei luoghi pubblici, nei negozi, nei ristoranti, nei trasporti pubblici, nei cinema, nei teatri, con la nostra burocrazia io non riuscirò a vedere nessun cambiamento, ma se ne parlerà come si è fatto e tuttora si fa relativamente alla sostenibilità degli edifici, ormai tutti diventati prati o boschi, ecco la risoluzione alla sostenibilità.

Concretamente costruire bene, non per produrre energia, ma almeno è certamente non consumarla.

Ma i “profeti” campano di verità che conoscono solo loro e sanno infondere a scopi di proprio vantaggio e di chi li paga, e che sono nascoste a noi comuni mortali.

Quindi a parte sfumature non cambierà nulla almeno in tempi brevi, ovviamente se nel frattempo non saremo tutti morti.

Chi sta rispettando le regole imposte per una vita sociale, ed è il 60% della popolazione, continuerà a farlo, il 30% del Grande Fratello e di Non è la D’urso si dimenticherà del virus SUBITO, il 10% di delinquenza continuerà ad approfittarsi dei deboli .

Ad ogni modo anche il 60% che vive la socialità con rispetto avrà subito una violentissima scossa alla sensibilità sopita.

Certo è stata un’occasione per pensare, chiuso in una casa da solo e, come me tanti, il silenzio mi indica quanto sia per me improduttiva la solitudine, solo le persone in carcere sanno metterla a profitto, io vivo di sociale, vivo le emozioni degli altri, rubo energia e regalo la mia se ne ho.

L’Architettura non cambierà ma certo sarà  base per un grande rilancio produttivo: la casa, le strutture commerciali, direzionali, saranno magari rivedute e corrette la prima scelta di investimenti da parte delle grandi Major e dei capitali privati, qualche rallentamento lo subirà il settore alberghiero che sta mostrandosi saturo, o meglio poco produttivo e fragile in un mondo che davanti all’ imponderabile mostra la sua fragilità.

I prossimi anni saranno per gli architetti, quelli veri, quelli che ogni giorno soffrono la professione con le sue regole qualche volta assurde, con la sua burocrazia spietata, con i budget e con i clienti che quasi sempre non sono con, ma nonostante, quelli che la professione la dedicano alle persone perché attraverso questa manifestino la loro dignità, la trasmettano alle loro famiglie, l’ambizione vana che arrivi ai politici, che tutto converga in una società in corsa, felice e pronta a difendersi dai pericoli che possono frantumarne gli ideali e sconvolgerne i sentimenti, radici di ogni società.

Questo è quello che, non essendo un intellettuale e teorico, posso esprimere”.


Ma lo studio SARS-CoV-2 è abilitato a progettare? (Andrea Tartaglia)

Andrea Tartaglia ha la lucidità sconcertante dello scienziato che analizza l’evoluzione della società e gli schemi culturali, architettura compresa, che la compongono meglio di un regista visionario di fantascienza distopica.

Devo dire che in questi mesi più confusi del solito raramente ho sentito parole così profonde, perché nascono non solo da studi seri (non molto diffusi), ma perché sono presaghe di un’idea sociologica e urbana concreta e se mi permettete auspicabile.

L’architetto deve chiedersi in quale società vuole vivere visto che ne determina le quinte teatrali, gli scenari collettivi e intimi, privati, funzionali o inutili, capirete bene che responsabilità, e concordo col fatto che non è nostro compito interloquire col virologo ma meglio l’antropologo, perché quella società preconizzata comincia  a farci paura.

Distribuiamo realisticamente i ruoli agli attori che devono costruire città abitate da persone sane, non terrorizzate, irreggimentate e soprattutto isolate, perché in questo caso e Andrea lo sa bene, verrebbe meno il principio ordinatore della Città stessa come si è evoluta nei secoli.

La sfida di oggi non è solo sociale ma civile, l’architettura deve tracciare linee chiare, non censurate dalla potenziale diffusione delle pandemie di ieri, di oggi e soprattutto di domani, il ben-essere è una condizione irrinunciabile dell’uomo, ma diventa eugenetica se lo costringiamo ad una esistenza programmata da spazi e luoghi militarizzati e gerarchizzati.

Questa battaglia, che mi accomuna ad Andrea è contro un virus molto peggiore di quello contemporaneo, che aggredisce le coscienze e sottomette ogni cittadino senziente a “volontà superiori prioritarie”forse per il bene della salute di ciascuno ma questo è il male assoluto di ogni società, cosiddetta, evoluta.(MDC)

Con maggiore frequenza si legge di come l’attuale crisi sanitaria ci cambierà. Di come ne usciremo migliori quasi come attraverso una selezione darwiniana. Come dopo il secondo Dopoguerra.

Peccato che dopo il secondo Dopoguerra, le guerre siano continuate così come le sopraffazioni e le ingiustizie sociali ed economiche si siano leggermente ammorbidite in alcune (limitate) aree del mondo mentre poco sia cambiato nelle restanti.

Contemporaneamente architetti e designer si stanno cimentando in visioni di spazi e strumenti per il distanziamento sociale. Perché la nostra nuova vita dovrà avvenire a distanza. Gli ospedali saranno container da assemblare nei luoghi dell’emergenza. Le città perderanno di densità. La vita sarà organizzata su turni e forse per fasce di età, per classi socio-sanitarie definite da test sierologici, dalla tipologia di mezzi di trasporto a disposizione e dalla collocazione geografica. Mi aspetto poi che, dopo le certificazioni ambientali e dopo le più recenti certificazioni relative al benessere degli utenti, a breve gli sviluppatori immobiliari richiederanno agli architetti anche l’ottenimento della tripla A della certificazione “Convid-free” che qualche zelante organizzazione privata sicuramente a breve lancerà.

Ma sarà vero? È questa la vita che volgiamo inseguire, come stiamo inseguendo i problemi, senza mai raggiungerli? È questo che desideriamo per il nostro piccolo mondo?

Perché una vita meno densa è una vita più impattante sull’ambiente (ci ricordiamo ancora i dibattiti sul consumo di suolo?). Una vita a distanza è una vita che contraddice l’essenza stessa dell’animale sociale che è l’uomo. E allora perché stiamo inseguendo invece di anticipare, perché progettiamo a due settimane, a sei mesi, a due anni quando va bene? Perché preferiamo progettare l’emergenza piuttosto che costruire il futuro?

Forse perché sotto sotto abbiamo deciso di non cambiare, abbiamo deciso che tutto sommato ci va bene andare avanti così. L’essere umano è resiliente e tutto tornerà rapidamente alla situazione pregressa come troppo spesso è avvenuto in Italia dopo terremoti e sciagure. Quindi, l’importante non è cosa si dice ma chi lo dice. L’importante non è cosa si fa, ma cosa si dichiara.

Ma se siamo architetti, tutto ciò non ci può andare bene, perché è la negazione stessa del concetto di progettare. Come possiamo accettare che il vero progettista del nostro prossimo futuro sia lo studio “SARS-CoV-2”? La mia impressione è che in troppi ci siamo fatti sopraffare dagli eventi e abbiamo accettato di diventare disegnatori in uno studio il cui titolare è un virus.

Forse invece questa potrebbe essere l’occasione giusta per recuperare il valore sociale ed etico della professione dell’architetto.

Avevamo davvero bisogno di un virus per sentire l’esigenza di progettare abitazioni adeguate in cui si possa vivere e non solo stare, in cui si possa lavorare e non solo usare un computer per svolgere attività lavorative? Avevamo bisogno di un virus per capire che gli openspace riducono i costi ma non per forza migliorano la qualità del lavoro e la flessibilità/usabilità degli spazi nelle diverse situazioni? Avevamo bisogno di un virus ricordarci che esistono le malattie infettive quando progettiamo i luoghi del soccorso e dell’accoglienza? Avevamo bisogno di un virus per ricordarci che non per forza l’aria condizionata è sempre un valore aggiunto?

 Avevamo bisogno di un virus per capire che progettando meglio si possono affrontare meglio le diverse situazioni che la vita ci pone davanti e che forse anche la situazione si sarebbe potuta gestire meglio in un mondo e in spazi progettati meglio?

Quindi, quando il mio amico Maurizio De Caro mi chiede un breve scritto libero e schietto sul presente e sul futuro, l’unica cosa che mi sento di dire, rubando le parole ad un grande ingegnere, sociologo e urbanista, è di ripetermi ogni mattina quando inizio il mio lavoro che il futuro non dobbiamo prevederlo o aspettarlo ma dobbiamo inventarlo o meglio ancora progettarlo”.