Collegio Di Milano

I cinquanta anni del Collegio di Milano nei progetti di Marco Zanuso, Studio Piuarch e Centro Studi TAT (Fabrizio Schiaffonati , capogruppo)

“L’architettura racconta la storia dei luoghi della città. L’imprinting di alcune opere è determinante non solo nella genesi dello spazio e della cultura dell’immagine architettonica, ma anche nei contesti di vita….Progettare l’abitare. L’architettura del Collegio di Milano è il racconto di questa articolata vicenda, non una celebrazione, ma una lettura della funzione civile dell’architettura nello sviluppo della società. Storia di persone e progetti, in un dialogo con il contesto e il tempo”.

(dalla prefazione, Progettare l’abitare. L’architettura del Collegio di Milano. F. Schiaffonati, A. Majocchi, G.Castaldo. Skira Editore.2019)

“In generale noi non comprendiamo più l’architettura, almeno da un pezzo non più nel modo in cui comprendiamo la musica. Ci siamo allontanati dal simbolismo delle linee e delle figure, come ci siamo disabituati agli effetti sonori della retorica, e non abbiamo più succhiato fin dal primo istante della nostra vita questa specie di latte materno dell’educazione. In un edificio greco o cristiano, in origine tutto significava qualcosa in relazione a un più alto ordine di cose: quest’atmosfera piena di infinito significato aleggiava intorno all’edificio simile a un velo incantato. La bellezza entrava nel sistema solo secondariamente, senza pregiudicare sostanzialmente il sentimento base dell’inquietante-sublime, di ciò che è reso sacro dalla vicinanza divina e dalla magia; la bellezza mitigava tutt’al più l’orrore – ma quest’orrore era dappertutto il presupposto. Che cos’è per noi oggi la bellezza di un edificio? Lo stesso che il bel viso di una donna senza spirito: qualcosa come una maschera”.

(Friedrich Nietzsche, Umano troppo umano, 1878)

Nel 1970 c’era una città dove i sindaci si chiamavano Aldo Aniasi (il comandante Iso), i banchieri Giordano Dell’Amore e gli architetti Marco Zanuso, forse per questo quella stagione così lontana, è  ancora viva nella memoria della cultura politica e progettuale, prima che finanziaria, e ci appare come un’Arcadia, un luogo magico dove tutto poteva accadere, nonostante le bombe, le violenze, gli scontri di piazza.

Infatti quell’architettura si definiva civile, come Zevi aveva cercato insieme ad altri, di dire e di dare una reale densità sociale a tutte quelle forme progettuali che possono diventare “i luoghi della cittadinanza”, della responsabilità a differenza dall’impatto istantaneo degli “edifici-stupore”.

Non è naturalmente, un percorso teorico e programmatico, o una nobile attività di alcuni progettisti  che mettevano al centro dell’azione espressiva non già il solo risultato formale e la sua intrinseca bellezza ma una necessità, una speranza, la volontà di caratterizzare il contesto urbano di quella “contemporaneità” in relazione ad un’ipotesi di futuro.

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Il “vizio della curiosità” porta Zanuso in Inghilterra dove, si possono evidenziare tre precisi riferimenti ad altrettante opere di Jim Stirling (Andrew Melville Hall, Sant’Andrew’s) di Denys Lasdun (University of West Anglia, Norwich) e Leslie Martin (Harvey Court del Gonville e Caius College a Cambrige), ma re-interpretate nella sostanza quasi umanistica della profonda adesione ad una intrinseca ed originale “milanesità”.

Non è un caso che il grande Architetto (e non meno grande designer) consideri ogni suo progetto una prova a se stante, che contribuisce a dare un senso identitario ad un luogo specifico, ad un tempo specifico e ad una città in particolare, dove esprimere una volontà e valori lontani dalla massificazione e dalla classificazione semplificatrice del movimento moderno.

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Il progetto del Collegio di Milano viene realizzato tra il 1971 e il 1974, su un grande lotto di oltre due ettari di proprietà comunale (e questo non è un particolare secondario, ma la fonte di una indimenticata idea politica, di dialettica virtuosa tra istituzioni e cultura del progetto), e il meraviglioso edificio soltanto poco meno di tremila metri quadrati destinati alle camere per gli studenti “di merito”, un’agorà coperta, aule e tutti i servizi.

Dunque molto di più di quello che oggi potrebbe essere scambiato per un semplice studentato ma, un’officina per la crescita umana, professionale e culturale dei suoi ospiti, che per oltre un terzo provengono da paesi africani e in città, e in questo luogo si costruiscono una nuova possibilità, una diversa concezione di futuro.

“Senza paradossi si può affermare che l’architettura è proprio l’edilizia “più utile”, in quanto, oltre alla destinazione pratica e all’organismo tecnico, riflette l’uso psicologico e spirituale.”

(Bruno Zevi, Architettura in nuce, 1960)
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Questo luogo civile è stato sicuramente un modello per tutte le strutture per studenti, realizzati da allora in città e nel resto del paese, anche per le successive elaborazioni e annessioni di due diversi progetti, quello dello Studio Piuarch (ultimato nel 2109) e del Centro Studi Tecnologia Architettura e Territorio, coordinato da Fabrizio Schiaffonati (concorso 2016, progetto definitivo ed esecutivo in fase di elaborazione).

I due progetti di ampliamento sono lontani nel tempo sia rispetto all’origine, sia tra di loro, ma rappresentano una perfetta sintesi plani-volumetrica che sembra attraversare il tempo e lo spazio dell’insediamento complessivo con rara armonia di forme e di finalità funzionali.

Entrambi i team di architetti e urbanisti, tengono in grande considerazione l’evoluzione geopolitica dei paesi da cui provengono gli ospiti, delle ridefinizioni dei progetti formativi, certamente diversi dalla fine degli anni sessanta ad oggi.

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I progetti dei due gruppi vincitori dei concorsi pubblici hanno ricostruito un dialogo “di amorosi sensi” con l’edificio di Zanuso senza rinunciare alle proprie peculiarità espressive e storiche, perché una “sinfonia costruttiva” nasce anche dalle differenze degli schemi planimetrici che si sovrappongono senza prevaricare le diverse identità.

Il Collegio di Milano, nel terzo millennio, ha avuto bisogno nuove configurazioni funzionali e di maggiori spazi che non avrebbero potuto essere la semplice reiterazione del modulo “ab ovo”, ma le commissioni esaminatrici dei due ampliamenti successivi hanno compreso il valore evocativo delle proposte e l’attenta ed appassionata lettura dei contesti e delle preesistenze.

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Quindi questo progetto risulta essere nella sua articolazione programmatica un segno tangibile della volontà ideale di architettura, di rara efficacia sociale, politica se non addirittura antropologica, perché è nella città ospitante che si realizzano queste capacità funzionali, questi percorsi antichi e moderni di una proposta di grande impegno civile.

E non sembri anacronistico ricondurre l’espressione etica di architettura civile nel giusto centro del dibattito critico attuale, mentre si susseguono e si celebrano episodi di continua spettacolarizzazione, che non riescono ad abbandonare il loro spericolato sperimentalismo muscolare, nella teoria infinita di una progettualità “facciatistica”, estetizzante.

Il Collegio di Milano, i suoi autori, i suoi finanziatori e dirigenti e l’attenzione che una certa finanza e una certa politica hanno riservato alla sua evoluzione, ci costringe ad una riflessione di carattere sociologico che riguarda la possibilità di realizzare una città diversa, solidale, culturalmente attrattiva e realmente innovativa, che rimetta al centro: quell’etica fagocitata da uno sterile catalogo di pseudo-estetica.

Il processo progettuale non può essere mortificato dall’assenza di un chiaro programma socio-culturale, perché costruire non è solo “dare forma” ma è soprattutto “dare senso” a quello che realizziamo, nell’attualità e per il futuro che in parte non ci riguarda, in quanto progettisti “temporanei”, transeunti.

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I primi cinquanta anni di questa bella storia, ci aiutano ad intraprendere strade diverse e nuovi percorsi creativi nel grande universo della ricerca e della prassi urbanistica e architettonica, cercando di mantenere quella qualità che spesso la burocrazia miope e misoneista vorrebbe semplificare verso l’abisso della prevedibilità di ogni realizzazione.

Gli episodi come questo ci fanno ben sperare in rinnovato patto tra tutti gli attori che devono e dovrebbero essere i costruttori delle città, delle nuove forme abitative, delle nuove volontà di ascolto dei bisogni più complessi di questi fruitori-abitatori che attraversano le nostre quotidianità.

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Da troppo tempo forme e funzioni del vivere, ci mandano messaggi che qualcuno dovrebbe cominciare a raccogliere sia per lo splendido passato ancora vivo, come questo, sia per un futuro che abbiamo il dovere, come intellettuali e progettisti, di rendere migliore di quanto non si possa realisticamente immaginare.

“Alla base dell’Architettura è sempre un problema morale: alla base del nostro mestiere non ci sono che doveri. Dalla presa di coscienza dei problemi, e soltanto da qui, l’architetto potrà trarre le forme che aderiranno ai modi di vita della sua società. Dalla presa di coscienza dei problemi egli trarrà l’invenzione di nuove forme, che genereranno nuovi modi di vita.”

(Franco Albini)

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