La cura quotidiana del pensiero (.2.CONTINUA) (dialogo con Alfonso Femia e Vincenzo Latina.

Prima e Dopo

Una riflessione (di Alfonso Femia)

Alfonso Femia ha lo sguardo appassionato di chi è consapevole di stare nel posto giusto, programmato per fare, bene, quello che ha scelto di fare. Più che una missione sembra un destino: fare l’architetto, costruire, cambiare i contesti in cui è stato prescelto per sfida o perché possa esprime il suo talento, sussurrare le soluzioni, trovare le risposte.

Questo tragitto è stato pieno di glorie pre-vedibili, che nascondono una disciplina, un’educazione semplice ed antica che non ha fatto fatica a trovare quella soluzione condivisa tra creatore e committente, che risolve l’impellente necessità di realizzare un desiderio, di fermare un’idea, una sola per farla diventare semplicemente architettura.

Sembra facile, e certe volte lo è, perché Alfonso ha dato a questo mestiere meraviglioso e dannato una stabilità concettuale che ci fa ben sperare per il futuro, ci ha raccontato che c’è ancora una possibilità, e se la vede lui, probabilmente possiamo vederla anche noi.

Non dobbiamo scambiare questo atteggiamento professionale per ottimismo candido (e lui non è certo la creatura fantasiosa di Voltaire) ma per l’azione eroica, così umana, così antica di combattere per arrivare al centro esatto del porto intellettuale dove riposano tutte le virtualità, a quel punta basta solo scegliere quelle che più ci assomigliano, e il gioco sapiente è fatto). MDC

Si sono dette e fatte molte cose, ma è un tempo questo senza memoria, senza sguardi, senza coraggio, senza visione, senza piacere. Un tempo decadente e mediocre seppure straordinario come passaggio tra tempi diversi.

A qualche mese dalla diffusione della pandemia, la percezione oscilla tra la memoria del “prima” – il tempo del “super” – e l’attesa del “dopo”, denso di incognite.

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Il tempo tra questi tempi è non ammalarsi – soprattutto – e non trasformarsi in una virtualità esistenziale, ancorata al “prima”, corroborata dalla tecnologia che tiene connessi.

I’m an architect.

È il titolo del saggio biografico in cui Paul Ardenne ha scelto di parlare del mio lavoro e della responsabilità che attribuiamo ad ogni azione progettuale.

Non sono un quadratino sullo schermo, anche se è rassicurante poter dialogare con gli altri quadratini.

I ‘m always an architect

Mi manca non poter accarezzare le superfici grezze dei cantieri e anche non stare al fianco dei miei collaboratori per valutare lo sviluppo di un progetto.

Il “prima” ha una dimensione reale, facile.

Sfido chiunque ad affermare di non avere nostalgia del “prima”. Si correva, si progettava, si facevano i concorsi, si vincevano i concorsi, si perdevano i concorsi. Si sperimentava, si dialogava.

Sfido chiunque a dire che gli eventi – vernici, mostre, conferenze, l’incontro con le persone – non ci mancano affatto.

Sfido chiunque a non avere almeno un po’ di rimpianto per quella sensazione di potenza che ci dava l’essere connessi e contemporaneamente presente in più luoghi, quasi in contraddizione con le leggi della fisica e soprattutto delle religioni.

Certo anche ora siamo connessi.

Il problema è che ora siamo solo connessi.

La sfida era l’elemento ricorrente che dominava la vita.

Correndo così veloci, con così tanti canali aperti, “prima” ci sfuggivano parecchie cose. Guardavamo le cose senza sguardo.

Era un tempo incredibile quello di “prima” e se non avessimo spinto così tanto, ora non avremmo gli strumenti per affrontare questa pausa.

 È vero che ci mancano i più importanti, quelli della scienza medica per risolvere la pandemia e quelli della lungimiranza politica per governare l’emergenza.

Ma se non fossimo già passati da un Tempo all’altro, l’oggi sarebbe anche più inquietante.

Dunque, un omaggio al “prima” è dovuto. Con umiltà e senza arroganza, senza voler girare all’indietro le lancette.

Il “prima” se è andato, è stato incredibile, ma si è anche macchiato di colpe gravissime.

Ci siamo dimenticati del nostro territorio.

La storia, le città, le case, gli uffici, si sono cristallizzati in un presente opportunistico.

Il futuro era un avvistamento lontano, che poteva preoccuparci al massimo in termini finanziari.

C’è una morale dell’architettura. Ha a che fare con la collettività, si ricollega all’idea di un contratto comune di una vita vissuta in società. La posta in gioco è il rifiuto dell’evoluzione nociva, antisociale, rappresentata dalla privatizzazione del mondo.

Un edificio morale è un corpo materiale che si socializza.

Anche questo non ci interessava più “prima”.

Presi dalla tensione verso la “supremazia”, avevamo abbandonato la volontà di immaginare e costruire un mondo migliore, il futuro.

Dicevamo di volerlo fare, perché stavabene dirlo, ma non lo facevamo realmente.

Questa mia concione suona un po’ come “il senno del poi”. Forse.

Nessuno è immune dalle lusinghe del Tempo in cui è immerso.

Il “prima” e il “dopo” sono difficili da governare.

Più semplice tracciare i confini di un autocompiacente presente.

Passato e futuro sono dimensioni intangibili che minimizzano la dimensione contemporanea.

Un salto di scala all’indietro.

Il contrario dell’amplificazione che è stata un’altra delle tensioni del “prima”.

Bisogna accettare di essere “piccoli” se questa è la condizione per l’armonia.

Snellire, accettare la metamorfosi della società, ancorarsi al territorio, mettendo al bando ogni aggressività.

Essere fragili non significa essere deboli.

Non siamo eterni, la fragilità è la nostra essenza.

Non dobbiamo essere distruttori, bensì costruttori di “mondi”.

Quello di oggi è il tempo della paura e delle domande.

Come ci relazioneremo, come viaggeremo, come staremo vicini e distanti allo stesso tempo, quale grado di certezza di essere al sicuro avremo e per quanto tempo? Quanto la paura insita o immessa nel sistema condizionerà il tutto?

Non sarà il carattere fisico della città, degli oggetti, dei territori il nostro problema immediato.

Si stanno prefigurando, molto a fatica, scenari diversi e alternativi.

Ma non saranno i dispositivi, le modalità, le regole necessarie per gestire la fase di ripristino della socialità, a garantire la serenità della nostra dimensione psicologica.

Che sarà dominata, per lungo tempo, dalla paura e, insieme, dal desiderio negato del contatto, della prossimità, dell’abbraccio.

Assecondare il Tempo e la sua dimensione di evoluzione naturale, ritornare ad adattarci passo dopo passo, comprendere prima e agire solo dopo aver capito a fondo: questa, credo sarà l’unica via da percorrere.

Senza volgere lo sguardo indietro, rischiando di popolare il mondo di tante statue di sale.

Senza prefabbricare il futuro, correndo il rischio di un domani distopico.

Non siamo dentro un videogioco, non possiamo passare di livello, utilizzando dei bonus.

La vita reale è altro. Città, paesaggio, territorio non sono scenari da videogioco.

È lì che decidiamo, influenziamo, comprendiamo, possiamo capire e decidere dove vogliamo andare tutti insieme. Oggi occorre farlo, dobbiamo imporcelo altrimenti saremo traghettati da un’emergenza all’altra, rendendo ordinario ciò che deve restare invece condizione straordinaria. Serve responsabilità e generosità in ogni nostro atto.

Serve rinascere e ricominciare, non ripartire.

Alfonso Femia Vincenzo Latina

Il disegno, la matita e il CAD. (Vincenzo Latina)

(Vincenzo Latina usa la parola come un sussurro, e ci conduce all’interno della stanza dove riposano i suoi pensieri più intimi, scarni, essenziali.

 Proprio come i suoi progetti ci indica la strada misteriosa dove il sogno di una forma diventa misteriosamente segno, con un gesto semplice e immortale attraverso lo “strumento” che è estensione manuale e materiale delle sue idee, profonde.

In queste immagini e in questo testo avvertiamo il significato della sua ricerca,e anche il mistero che si nasconde in ogni azione creativa che è al contempo insegnamento e intuizione,secondo una linea scomposta che conduce dal passato al futuro.

Forse questa è la differenza ultima tra edilizia e architettura,forse.MDC)

Verità e costruzione.

Il disegno a matita è profondamente irrazionale, è il nostro subconscio che riaffiora, il pozzo oscuro della memoria rigenerativa, memoria creativa che di volta in volta pesca, ricompone, ricostruisce.

Il disegno a matita è la menzogna, senza la matita non esiste verità.

L’arte è visionaria.  

L’arte è una bugia che ci fa realizzare la verità.

L’artista deve sapere il modo con cui convincere gli altri della verità delle sue bugie.

Pablo Picasso

Negli ultimi anni le giovani generazioni, gli studenti, per via dell’ossessiva ripetizione e della meccanica gestuale del CAD e dei giochi virtuali hanno perso la percezione del corpo, il peso del corpo, la gestualità creativa irrazionale del subconscio.  

Solo pescando nell’oscuro della mente possiamo scoprire la flebile luce della verità.

Noi siamo il nostro inconscio.

Ognuno ha la propria verità.

La società come il CAD è la convenzione è la costruzione logica del comportamento, delle azioni per la produzione.  

La crisi ci riporta, come la matita, all’inquietudine del nuovo, dell’ignoto.

La ricerca è l’ignoto, a volte si opera per affinità e casualità.

È nel caos che si pesca, che si trova l’essenza.

Gli Scienziati e gli artisti, lavorano nel caos per cercare la verità.

La razionalità è il CAD, è “finzione”, è la ripetizione, è importante per trovare corrispondenze, relazioni, per la “fredda” condivisione.

Questo è periodo di caos.

La ricerca è creativa, come il caos.

Chi trova le fila, la continuità del segno grafico… costruisce e  si  “salva”.